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Appropriazione di bene fatto da me ai fratelli di ieri. Ieri,
con un sentire proprio dell’educando, con una chiusura e
una difesa che ha influssi negativi e con un martellamento
di verità terrificanti, si volgeva al bene. Lode e ammirazione,
io me le ingoiavo con piacere.


Il piacere del bene:
1) Mi fa generare bene facile a vedersi: bene appariscente.
2) Mi fa mettere in mostra il bene capace di attirare: bene
attraente.
3) Mi fa convogliare su di me la attenzione ben disposta:
bene disponente.
4) Mi fa aspirare la credibilità pronta ad aderire: bene aderente.
5) Mi fa divorare la gloria acclamante: bene gloriante.
6) Mi fa appropriare il bene che non ha nome: bene
vagante.
C’è un bene divino fatto da me ai fratelli, ma prima abbiamo
fatto parola del bene divino fatto a me.
1) Quello di origine: corpo animato e spirito umano non è
possibile attribuirmeli, ma le loro qualità che vado esprimendo
me le so prontamente appropriare. È soprattutto:
2) il bene di impiego: lo spirito di amore del Padre che mi
si è dato da vivere, Satana me lo ha sequestrato, me lo
ha affidato in mia proprietà, perché l’avessi ad impiegare
in ogni mia azione, amandomi e odiando.
L’operazione di Satana mi ha lasciato un’orma di tendenza ad
appropriarmi del bene Figliale, quello fideato, per cui il bene
ricevuto lo sento mio: talora posto da Dio per la mia esaltazione:
il ringraziamento del fariseo; tal’altra, ed è il caso più
frequente, come se fosse un bene di mia proprietà esclusiva:
è roba mia, Dio non c’entra neppure. Il bene fatto a me:
Paterno prima, e Figliale poi, non è il solo bene vagante. C’è
pure un bene divino fatto da me ai miei fratelli. Sono in molti
a gestire questo bene; indicandoli tutti insieme: sono gli educatori
religiosi: genitori, insegnanti, catechisti, ma soprattutto
i sacerdoti, dai quali attingono tutti gli altri educatori.
Il bene divino fatto ai fratelli:
a) nei giovani ha uno scopo orientativo e formativo
b) nei maturi ha uno scopo perfezionativo.
I tempi passati hanno reso facilissima la appropriazione di
quel bene vagante. Il bene veramente c’era. Ed era tutto un
bene fideato: che si accumulava nell’educatore mediante
la fede; e questi a sua volta lo trasmetteva agli altri, e ve
lo faceva funzionare. Una trasmissione ideale, perfetta.
L’uomo da educare aveva un suo forte duplice sentire: lui
si sentiva piccolo(*), ma l’autorità la sentiva grande: lontana,
minacciosa, velata di profondo mistero.

(*) In questo contesto stiamo ora usando il termine ‘piccolo’
non più in senso evangelico, come si starà notando, ma semplicemente a livello umano.
L’educatore poteva agire con sicurezza, perché mancavano
i disturbi che potevano venire dall’esterno. E non appena
comparivano, la severa vigilanza impediva ogni contatto
con la persona educata. I nuclei famigliari e parrocchiali
formavano un mondo chiuso, difeso dall’esterno e
manovrato liberamente dall’interno. Isolamento, il sentirsi
piccolo e il sentire grande l’autorità, il martellamento
continuo di certe verità religiose, la paura che veniva inoculata
con l’idea di un Dio buono con i buoni, ma implacabile
castigatore dei malvagi, orientava decisamente in
quella direzione del bene. In queste condizioni il bene
fatto dal sacerdote ai fratelli era facile sentirlo in mio possesso,
come mio: prodotto quindi non della grazia interiore
di Dio, ma della mia capacità, del mio impegno, del mio
fervore e del mio zelo sacerdotale. Per questo, al sopraggiungere
delle lodi e della ammirazione, trangugiavo tutto
con immenso piacere, come un frutto maturato dalla mia
bravura e dalla mia bontà, senza neppure volgere a Dio un
minimo di riconoscenza. Il bene fatto era quindi mio, tanto
da escludere Dio. L’uomo cresciuto di oggi ci ha aperto gli
occhi, e di questa situazione dobbiamo dire grazie.

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